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Michele Carino
Michele Carino

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Volevo smettere di fare lo sviluppatore software e iniziare a fare l'imbianchino...

(•‿•)∿ Questo post non è scritto con l'IA

Fino a qualche anno fa volevo cambiare lavoro, dopo ben quasi 20 anni (venti) di sviluppo software.

Venti anni non qualsiasi, ma in cui ho vissuto l'intero fottuto spettro della professione: programmazione, architettura, anni di management intervallati da sviluppo operativo, cambi di progetti, città, mansioni e aziende.

Ero arrivato al punto di dirmi:

basta, voglio svolgere un lavoro manuale, non posso più caricarmi addosso la pressione delle scadenze, le responsabilità del software fatto di fretta, delle aspettative irrealistiche, della visibilità corta sui progetti...

Un giorno volevo fare l'imbianchino, l'altro investire nell'immobiliare, poi lavorare la terra.

E per un periodo ho provato, ho provato davvero, ma qualcosa non mi convinceva del tutto.

E' stato difficile:

  • non era il mio linguaggio
  • non era il tipo di fatica che mi entusiasmava ed energizzava
  • non era la mia manualità

...non era insomma dove potevo realmente spendere una forte competenza affinata negli anni.

Ma si sa, alle volte nella vita un amore per comprenderlo visceralmente bisogna perderlo, almeno temporaneamente...

A quel punto ho realizzato, scusate il gioco di parole, che per realizzarmi non potevo che seguire la strada che avevo sempre voluto e che la mia passione mi ha ininterrottamente indirizzato a seguire e ciò di cui parliamo oggi: fare software, cazzo!

Nel riprendere ovviamente la mentalità del progettista riemerge, chiedendosi:

Perché questa volta dovrebbe essere diverso?

Cosa ti assicura di non arrivare nuovamente al punto dove hai dovuto fermarti la prima volta?

Così ho iniziato ad analizzare il perché fosse accaduto.

Ho dato voce all'insofferenza che per anni ho cercato di tenere a bada per riuscire ad andare avanti, ma che adesso reclamava prepotentemente diritto di espressione.

Questa volta ho visto con lucidità la mera realtà dei fatti del nostro ecosistema professionale:

1. Risultati finanziari immediati

Ormai questi contano più della crescita stabile e della sostenibilità a lungo termine.

Non è quasi più possibile vedere realtà radicate su un prodotto o servizio insostituibile.

Prima si vende poi si pensa alla qualità del servizio o addirittura che questo possa esistere o essere davvero utile.

Davvero non era questo ciò che sognavo sui banchi dell’università, o quando da adolescente, invece di uscire a giocare con gli amici, mi consumavo sul manuale di Visual Basic (per fortuna poi ho cambiato linguaggi… e ho anche sviluppato una socialità più sana).

Non ho mai sognato di progettare software fatto di fretta, con tecnologie vetuste e debito tecnico crescente e mai colmato.

L'importante oggi, per avere interesse da parte della finanza, sembra dimostrare la possibilità di un risultato quanto più che capire realmente come ottenerlo. (Non ovunque per fortuna).

Il che porta al secondo punto:

2. Management shelf life

Ormai la "shelf life" di un manager tecnico o di prodotto, (scusatemi il termine preso brutalmente dal gergo dell'industria delle produzioni alimentari), è 3-4 anni, 5-6 se è uno col pelo sullo stomaco.

Questo porta al fatto che il riconoscimento del valore non è mai sul lungo termine.

Non è mai su un impatto concreto misurabile negli anni sulla qualità della vita aziendale e la sostenibilità dei prodotti (un pò come per la politica).

Tutto il resto viene di seguito, poiché senza una direzione stabile anche gli sforzi di chi opera sul software non possono essere correttamente o stabilimente riconosciuti, portando al disinvestimento da parte di tutto l'asset umano che lavora su prodotti e servizi: dagli architetti, agli sviluppatori ai tester.

Resta che oggi, ambire a “crescere” passando al management, spesso significa sacrificare completamente l’equilibrio vita-lavoro, più che avanzare davvero nella professione. (E purtroppo ne so qualcosa…).

3. La community non esiste (non ci appaga)

Esistono tante iniziative, ma spesso e volentieri finanziate da quelle realtà con scarsa cultura ingegneristica che corrono ai ripari proprio per cercare di trattenere o attirare talenti.

E quando non è così spesso talk e conferenze sono di carattere autopromozionale: persone che in realtà non hanno prodotto qualcosa di significativo o rilevante, ma vogliono per forza parlarcene per avere un po' visibilità, oppure speaker (sponsorizzati) che presentano prodotti e ne introducono blandamente l'uso.

Manca sempre e solo una cosa: la passione e la volontà di identificarsi in una comunità.

Dire che a questi soggetti manchi la passione forse è esagerato, diciamo che sembra restare parecchio marginale rispetto a come e a quello che ci offrono.

Senza una comunità professionale quello che avviene gradualmente è isolamento e ancor di più mancato senso di appartenenza.

Fattori che in loro assenza, ti viene su la voglia di dedicarti ad altro per vedere spunta fuori un contesto umano che nutre.

E devo dire che in questo siamo carenti, perché agricoltori e professionisti edili nessuno gli toglie l'after hour al bar la sera.

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Se frullare le mani sulla tastiera ti fa sentire vivo, continua a farlo e basta...

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Mi ero convinto di voler fuggire dal software.
La verità?
Non volevo scappare dal software... volevo scappare da come il software viene costruito oggi.

Ma dunque perché riprendere e continuare per questa strada?

Perché quelle che sono uscite fuori non sono tare strutturali della professione, ma carenze... e le carenze fortunatamente si possono colmare (anche se difficilmente ti pagano per farlo).

Niente davvero ci obbliga a lavorare senza cura, passione, eccitazione o senza cercare di costruire una community più vera.

Certo sarebbe un risultato che nel mondo professionale di oggi resterebbe non visto, ma un risultato che aiuterebbe molti di noi a donare un senso più profondo alla propria professione (e in parte alla vita).

Io personalmente, negli anni 90, sono cresciuto con una visione romantica della mia professione, in cui la passione per quello che si fa è il 99.999% della motivazione.

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